Politica agricola

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Agrumicoltura all'anno zero

Piazza

La crisi del comparto ha radici profonde, riconducibili essenzialmente all'incapacità dei produttori di mettersi assieme definendo strategie commerciali comuni e di offrire ai loro acquirenti tutti quei servizi senza i quali la competizione sul mercato diventa assai problematica.

Sembra ieri quando il prezzo del grano tenero sfiorava le 40.000 lire/q e per quello duro ci si avvicinava alle 50.000 lire. Molti si ricordano anche delle liquidazioni delle mele e delle pesche su valori sempre superiori alle 600-700 lire/kg e a quelli delle pere che in certi anni hanno sfiorato e superato le 1.000 lire al kg.
Noi della Pianura Padana, abbiamo memoria anche dei prezzi delle patate e delle cipolle che mediamente contribuivano a produzioni lorde vendibili vicino ai 15 milioni di lire per ettaro; e gli agrumicoltori, della piana di Catania, ricordano molto bene quando partivano le navi piene di limoni e di arance per l'ex Unione Sovietica e i vagoni per la Germania, con il Tarocco che veniva pagato sulla pianta a 800 o 1.000 lire/kg. Era quella l'epoca, durante la quale detenere le materie prime, alimentari, minerali o vegetali che fossero, voleva dire detenere il potere economico ed essere padroni dei mercati.
Il tema che sto cercando di affrontare è vasto e importante e il rischio di banalizzare i concetti è dietro l'angolo. Voglio però cercare di dare una risposta, seppur parziale, al più che giustificato grido di dolore relativo alla drammatica situazione che si sta creando nel settore dell'agrumicoltura siciliana e non solo. E una situazione già nota nella Pianura Padana dove si è vissuto il dramma delle mele e dove due anni su tre le pesche soffrono di tremende crisi commerciali. E una situazione che conosciamo dalla metà degli anni 80, da quando il valore di tutte le materie prime, petrolio compreso, è stato determinato sulla base del valore dei servizi che su quelle materie prime venivano aggiunti: concentrazione dell'offerta, trasformazione, trasporto, conservazione, selezione, logistica, imballi, distribuzione, comunicazione, pubblicità, ecc.
Il 70% delle mele che attraversavano il mercato ortofrutticolo all'ingrosso di Bologna provenivano dall'Emilia-Romagna, poi, dalla metà degli anni 80, quella percentuale è andata calando progressivamente e regolarmente di anno in anno, fino ad arrivare a oggi che le mele della regione rappresentano poco più del 20% del totale, mentre quelle del Trentino, dell'Alto Adige e delle valli lombarde e piemontesi, che in quegli anni rappresentavano il 12%, sono oggi presenti con oltre il 60% del totale commercializzato.
E allora vediamo cosa è successo. Bene, i produttori delle vallate alpine, oltre a realizzare un buon prodotto, lo hanno corredato di servizi, primo fra tutti quello relativo alla concentrazione dell'offerta; di seguito lo hanno pubblicizzato più che bene, lo hanno ben vestito e ben presentato al grande pubblico dei consumatori e dei distributori, sia a quelli della gdo che a quelli della distribuzione tradizionale.
Nonostante questo, la strada, oggi, è in salita anche per loro e di anno in anno essi devono inventarsi qualche cosa di nuovo per non rimanere incastrati oltre che da un'offerta che proviene da tutte le parti del mondo, Stati Uniti compresi, anche da quella relativa a produzioni alternative come banane ananas, arance, pere, kiwi, uva, pesche e drupacee in genere.

L'esempio spagnolo

Analizzando la situazione che si è venuta a creare per le arance, mi sembra di rivedere, in buona parte, il film già visto per le mele, con una differenza: che per le mele emiliano-romagnole, nel male o nel bene, si è riusciti a porre una pezza, pur tra mille problemi, con una produzione sempre italiana; con le arance e ancor di più con i limoni, la toppa è stata posta, purtroppo, con produzioni che provengono prevalentemente dalla Spagna. La carta vincente degli spagnoli? In primo luogo la concentrazione dell'offerta: in Spagna ci sono cooperative e operatori commerciali privati che possono disporre di due milioni di quintali di arance e di un milione di quintali di limoni; inoltre, sempre gli stessi, o con lo stesso marchio, possono commercializzare 500.000 q di pesche, di albicocche e 300.000 q di uva da tavola e di fragole. Tali imprese non solo ce le sogniamo in Sicilia, ma anche nel resto del Paese, a parte pochi gruppi, con i quali controlliamo non più di 30 o 40 milioni di quintali di ortofrutta, su una produzione complessiva che si aggira annualmente attorno ai 250 milioni di quintali; in pratica, mentre in Spagna la produzione organizzata controlla circa il 60% del mercato, da noi si riesce a controllare poco più del 20% del totale.
Che fare? Non esistono formule miracolose, ma la strada che l'ex-ministro De Castro ha chiaramente tracciato promuove le associazioni di produttori che detengono e commercializzano il prodotto (anche tramite le loro cooperative), e le macrorganizzazioni commerciali. Le une con lo scopo di concentrare l'offerta, le altre con quello di individuare i migliori canali commerciali anche con organizzazioni e con strutture operanti in regioni diverse. Ma non esistono solo queste due formule, vi sono anche società di fatto, o comunque società private, che stanno sviluppandosi in diverse zone del Paese, composte da agricoltori che si conoscono e che hanno fiducia nei loro mezzi e nella loro forza, che possono avere la capacità di controllare diverse centinaia di migliaia di quintali di un prodotto di particolare pregio, che lo conservano, che lo immettono sul mercato nei momenti più opportuni, o che addirittura rischiano assieme a commercianti che si sono offerti di rappresentare il loro ufficio vendite.
Per non andare molto lontano cito ancora una volta l'esperienza della Borsa patate di Bologna e dell'accordo interprofessionale, che tutti gli anni, seppur con qualche difficoltà, si va a firmare. Questo accordo consente di controllare, direttamente o indirettamente, all'incirca 1,5 milioni di quintali di tuberi (e sono ancora pochi), per i quali si trattano a tavolino i prezzi alla produzione e anche quelli per il prodotto confezionato, si determinano le migliori strategie di vendita e si cerca di rendere dignitoso sia il lavoro del produttore singolo, sia di quello associato, che la capacità della componente commerciale.

Aggregazione indispensabile

Mi rendo conto che non è semplice applicare in Sicilia modelli che in altre zone del Paese hanno dato soddisfazioni o contributi a migliorare lo stato economico di alcune colture, ma consentitemi di sottolineare come in Sicilia, in particolare nel settore degli ortaggi e in diverse zone della regione, si siano sviluppate meravigliose realtà associative che rappresentano una forza non certamente marginale anche a livello nazionale. Si pensi a cosa è stato fatto in provincia di Ragusa, nelle zone di Pachino, Marsala, Licata, Partinico, Siracusa, Ispica, Maizarrone, Canicattì: è stata forse la consapevolezza che con aziende di 5.000 m2 non si poteva produrre in maniera efficiente per il mercato? Forse! E allora, si crede forse che con "giardini" di arance della dimensione di 10.000 m2 si possa produrre per un mercato che vuole un minimo di programmazione, che ha la pretesa di avere partite uniformi nei calibri e nello stato di maturazione dei frutti? Io ho sacrosanto rispetto per i piccoli produttori, che fino a ieri sono stati la spina dorsale della nostra agricoltura e che hanno contribuito a eliminare la fame dal nostro Paese oggi, però, è necessario puntare sui servizi integrati al prodotto e al cliente, e da soli non ce la si può fare. Questa è una dura realtà per chi fino a ieri ha inteso la cooperativa come un luogo da frequentare quando il mercato era pesante, o dove conferire il prodotto che non si era riusciti precedentemente a vendere, o per chi vede gli organi dirigenti della cooperativa come una controparte e non come manager che stanno sul "suo libro paga", dato che è lui stesso, piccolo o grande produttore che sia, il reale padrone della cooperativa o del gruppo associato. Questa è, purtroppo, una realtà che ho vissuto nella mia Romagna, in Polesine e nel veronese quando ancora oggi mi trovo davanti a cinque mercati alla produzione, tutti ubicati nella cintura attorno a Verona, che propongono praticamente gli stessi prodotti e che litigano a chi apre per primo al mattino. Gli agricoltori di questo benedetto Paese soffrono di eccessiva iperconsiderazione di se stessi, e per la maggior parte dei casi non hanno torto: sono fantastici, pronti al sacrificio, a lavorare 14 ore al giorno e a non parlare di ferie. Il punto debole, però, sta nell'organizzazione degli agricoltori stessi e nel raccordo con i personaggi che operano fuori dall'azienda produttrice: io credo negli accordi interprofessionali, nelle associazioni dei produttori, nelle produzioni organizzate per vendere; io credo nella tipicità di ciò che produci solo se si è in grado di rendere evidente e percepibile tale tipicità. Credo inoltre che la strada da percorrere sia molto ripida, ma penso anche che abbiamo la muscolatura per riuscire a passare dall'altra parte del colle. Solo così sarà possibile competere nel mercato globale, senza correre il rischio di farci soffocare dal liberismo commerciale dove il più forte schiaccia il più debole e sono scarsissimi gli ammortizzatori sociali.
Comprendo la depressione e lo sconforto di migliaia di produttori che vedono arrivare navi e navi di agrumi anche dall'altro emisfero, però li invito caldamente a provare a percorrere tutte le strade possibili per darsi una migliore organizzazione, per andare fieri dei loro prodotti e dei servizi che saranno riusciti a offrire con essa, per fare quella differenza di cui loro sono convinti ma che spesse volte non sono riusciti a far percepire al loro migliori clienti e soprattutto, drammaticamente, a dei consumatori che non hanno più fame.

Roberto Piazza